Una riflessione di Franco Zucconi sul circolo

C’era un tempo in cui essere del Tirrenia significava appartenere ad una specie di elite, perché potevi anche capitarci per caso, ma quando pensavi di averlo scelto come il tuo circolo, sorgeva un ostacolo : dovevi essere accettato. Semplice vero ?  Era così dappertutto, si direbbe, come oggi. Niente affatto. Non c’era una Commissione di Ammissione, né un’audizione. Il giudizio al quale l’incauto aspirante era sottoposto avveniva essenzialmente “a occhio”,” o a naso”. Del tutto arbitrario, estemporaneo, si sostanziava infine in una sorta di cooptazione in caso positivo, di rigetto se negativo. In entrambi i casi i non-provvedimenti erano immotivati e indiscutibili, e naturalmente non venivano ufficialmente comunicati. Se eri ammesso te ne accorgevi, dovevi accettare incondizionatamente le regole, quelle scritte, poche, e quelle non-scritte, tante e variabili. Il periodo di prova lo decidevano gli eventi: se reggevi, entravi in pianta stabile, prendevi i voti e diventavi parte della conventicola. Non c’era da stupirsi, né scandalizzarsi, l’ambiente dei “fiumaroli” allora era tutto un po’ così, una cosa per iniziati. Se non reggevi, capivi presto che….. era mejo se te n’annavi………

C’era un Capo Supremo, che era Ernesto (Diddo) Todaro, poi una specie di Anticapo, o di Anticristo, che era Marcello Milazzo , circondati da alcuni adepti addentro alle segrete cose, come Ferruccio Micocci, Paolo Priore, Gottardo Angella, Giorgio Nocella, Franco Giannelli, Sergio Cardoni, Mario Biasciucci,  Giorgio Cianfarani, Marcello Tilli, Franco Pulcini, Franco Manno, Giorgio Gatti, Ferruccio Ferrari,  Pino Giustiniani, Renato Bellincampi, Piermarino Colucci, Giovanni Roesler-Franz, Nino Abate, e qualche altro…….  Un circolo democratico, dove le decisioni venivano prese a minoranza assoluta.

Viene spontaneo pensare ad una specie di nonnismo, ma non era così. Certe dinamiche nonniste erano presenti, ma alla base c’era uno scopo preciso: metterti alla prova, verificare se possedevi quelle affinità elettive in mancanza delle quali non ci poteva essere giudizio di idoneità, capire se eri “uno dei nostri”. Superato l’esame, era come essere ammesso in accademia, con la sua disciplina, la sua retorica, la sensazione di essere entrato a far parte di un gruppo veramente speciale, una setta. La sensazione era ancora più netta per chi, provenendo a un altro circolo, capiva le differenze.

C’era l’amore per il fiume, tutti erano tenuti a farci il bagno, i più riottosi eventualmente vestiti. C’era la passione di andarci in barca, remando o pagajando, c’era la voglia di continue  sfide, agli avversari, alle avversità,  alla fatica, a dare prova di essere, se non invincibili, infaticabili (celebre il raid  di Todaro e Piccinelli con un vecchio K2 dal circolo a Napoli). C’era, forte, il senso della missione, quella di “fare il circolo”, trasformare il sogno in una realtà, ad onta delle difficoltà e dei sorrisetti di compiacenza. Una sorta di enfasi che contagiava tutti, una missione durata parecchi anni.  E non ci si accontentava soltanto di fare un circolo, no ! il circolo si doveva farlo speciale, diverso, esclusivamente sportivo, alieno da qualsiasi indulgenza verso la mondanità di cui altri facevano sfoggio , un circolo di iniziati, fiumaroli e canottieri allo stesso tempo, accessibile a tutti, e dove tutti fossero uguali, a  condizione di essere pronti a condividere i pochi onori e i molti oneri. Un circolo dove non esistessero differenze di censo (così evidenti in tanti altri) e dove non ci fosse la vergogna dei “soci-voga”, i poveri vogatori-paria, ancora oggi presenti in gran parte dei circoli di canottaggio,  tesserati formalmente come soci per il circolo di appartenenza, ma nella sostanza  soci-finti, di nome ma non di fatto, perché privi di qualsiasi diritto. Sarebbe bastato questo a fare del Tirrenia  un circolo eretico.

Entrare significava condividere tutto ciò, ma non soltanto. Significava lavorare sodo, allenarsi seriamente anche se con  modalità un po’ anarchiche; caricare, scaricare e trasportare barche (che faticate !)  oltre che le proprie, anche altre per conto terzi in occasione di regate, al fine di far entrare qualche soldo; partire, fare la nottata in macchina, e la mattina dopo presentarsi in gara; accontentarsi di pasti frugali, giacigli di fortuna;  fare opera di manovalanza, collaborare, per quanto possibile, al pareggio dei conti, magari andando all’ultimo momento a pagare una cambiale in scadenza (quante  volte Diddo ti telefonava la mattina alle sette : C’è in scadenza una cambiale….. mancano duemila …..oppure tremila….. tu quanto c’hai?…. E allora, racimolavi, e…. via di corsa).   Con questo tirocinio, e l’esempio dei “più anziani” (cioè, poco più che trentenni) che con grande impegno personale mandavano avanti la baracca, inevitabilmente si creava  un forte senso di appartenenza e di solidarietà, sentimenti diventati per molti di noi una regola di vita, della quale dobbiamo essere grati.                                                       

 Due piccoli ricordi, tra i tanti, che aiutano a capire :  trasferta per Torino, furgone carico di barche, non solo del nostro circolo. Verso Viareggio, un colpo di sonno, una sbandata, furgone nel fosso e molte barche danneggiate. Liberata la strada e rimorchiato il mezzo, Diddo Todaro, che era sull’altra macchina con altri soci, fece una rapida questua tra i presenti. Un modesto bottino di orologi e catenine, che portò prontamente al locale Monte dei Pegni, il ricavato usato per comprare i biglietti del treno, e via verso Torino. Il giorno dopo tutti in gara.  Nessuno sgomento, solo imprecazioni, neanche per un attimo si era pensato di rinunciare e tornare indietro.  Altro  aneddoto emblematico, piccolo ma significativo: c’era da ritirare un quattro assegnatoci dalla Federazione presso la Scuola dello Sport all’Acqua Acetosa. Tre o quattro volontari si dichiararono disponibili, ma ci voleva un mezzo, affittare un furgone, anticipare dei soldi…ecc….  “Bene, allora andate, ho già telefonato e possiamo ritirarlo”, disse Diddo. E la macchina ?  Quale macchina , e a che ve serve ….?  Be’…per caricarla…….. Ma come..?.. so’ du’ passi, annate a piedi. A piedi ?…. Be’, siete quattro, che ve serve pure il timoniere ?….   E così fu. Io, che ero tra i quattro, me la ricordo come una marcia trionfale, tanta era l’enfasi.  Credo sia stato l’unico caso a Roma di barca trasportata a spalla nel traffico cittadino.

C’era un acuto senso di libertà, in parte fomentato dal confronto con un certo formalismo ostentato da altri circoli. Non che mancassero le regole, ma erano ampiamente condivise, senza bisogno di imposizione gerarchica. Un circolo libertario che favoriva in tutti noi   la formazione del senso di responsabilità, dove tutto era basato sul volontariato più puro e disinteressato, dall’amministrazione alle trasferte, affidate generalmente  al più anziano della squadra, spesso un ventenne o poco più,  attento, nella sua funzione di comandante pro-tempore, a svolgere il suo compito senza prendere troppe pernacchie.

 Inevitabile che in un clima del genere ragazzi appassionati e entusiasti finissero col convincersi di appartenere a un gruppo di duri e puri senza confronti, di essere unici. Un’autoesaltazione  che nel mondo variopinto, ma disciplinato, delle regate ci faceva sentire come dovevano sentirsi gli “arditi” nei  confronti delle truppe regolari.  D’altra parte, questo gruppo di atleti  presente in quasi tutte le gare, scanzonato, libertario, allegro, rumoroso, instancabile, frugale, un po’ nomade (per animo, ma principalmente per la mancanza di una sede definitiva) e spesso anche vincente (fin dai primi anni ’50 abbiamo avuto atleti campioni d’Italia e azzurri nella squadra olimpica e per anni siamo stati tra le prime cinque delle oltre cento società remiere in Italia) raccoglieva simpatia ed era ovunque oggetto di dichiarata ammirazione e di incoraggiamenti. Eravamo guardati allo stesso modo come a suo tempo l’esercito regio guardava i garibaldini. Un modo di percepirci che ci ha  accompagnato fino ai giorni nostri.

Perchè questo lungo preambolo ? Non  soltanto per nostalgia e rimpianto della giovinezza, che ne sono ingredienti, ma non la causa. E neanche perché si possa aspirare a riprodurre comportamenti e dinamiche che appartengono ad un altro contesto storico. Ma perché, con questa storia alle spalle, viene da chiedersi:  è normale che un circolo di questo tipo possa, o debba, omologarsi, conformarsi ai modelli sociali dominanti, perdere la sua originalità e specificità, diventare banalmente equivalente ? Perché questo è il rischio che corriamo.  In parte, a causa di una fangosa  deriva sociale che sospinge tutto e tutti verso modelli sempre meno distinguibili, sostenuta dall’onda di mezzi di comunicazione e “influencers” (basterebbe la parola per diffidarne), quasi tutti allineati su mode e  pseudo-valori di giornata usa e getta; in parte, per colpa di una nostra disattenzione, figlia anch’essa del tempo, di un materialismo pervasivo e di un approccio mercantile  che  inducono ad occuparci del circolo come di un condominio, o una piccola azienda. Comportamenti anche virtuosi nella loro funzione, oltre che impegnativi, che però hanno un limite: la percezione  del circolo come di un “posto”, mentre un circolo, e il nostro in particolare per le ragioni di cui si è detto, è, o dovrebbe essere e restare,   un’idea. Ne consegue, inevitabile, la progressiva perdita di prospettiva storica e valoriale, lo sfumarsi delle nobili origini ideali  in orizzonti sempre più lontani, e in primo piano, invece, il “posto”, il circolo nella sua materialità,  la sua efficienza,  la sua capacità di rispondere alle esigenze, per altro legittime, di comodità, di amenità, di svago, di mercato (anche l’auspicata maggiore apertura alle donne, al di là delle polemiche che ha suscitato e nel rispetto dell’opinione di ciascuno,  va in questa direzione, come è stato più volte ricordato dai fautori dell’allargamento che individuano in quella apertura lo sfruttamento di una favorevole occasione di mercato). Un circolo al passo forse coi tempi, ma senza anima.

E’ una deriva preoccupante, anche a volerla considerare un malanno fisiologico naturale, non fosse altro  perché col collocarci  nella stessa categoria degli altri circoli storici , considerate le nostre dimensioni, la nostra compagine sociale, la nostra natura, non potremmo che risultare perdenti, diventandone una copia più modesta.

Abbiamo, invece, le carte in regola per primeggiare. Per farlo dobbiamo  riscoprire il nostro” ubi consistam “, mettere in evidenza gli elementi di diversità che hanno motivato la nostra origine, avere consapevolezza dei  nostri ideali e della nostra storia, trasmetterla, riscoprirne il tracciato e tornare fedelmente  a percorrerlo, se non con il medesimo entusiasmo, oggi forse impossibile, con la stessa coerenza. Riaffermare, in un mondo consumistico, il primato dei sentimenti, sottraendoci alla logica del mercato e proporci come alternativi perché diversi e unici. Abbiamo creato nell’immediato dopoguerra, in  una  società tutta tesa alla riconquista di benefici materiali e di benessere perduti con la guerra, un circolo d’altri tempi, senza scopo di lucro, fondato sugli  ideali e sui  valori, come soltanto giovani entusiasti possono fare. Non dissipiamo il patrimonio morale  e sportivo che abbiamo accumulato.

Non è facile.  Passare dall’esortazione ai programmi, dalla petizione di principi alle proposte concrete è un compito sempre  arduo. Può riuscire a patto che tutti ne siano convinti e coinvolti, in modo tale da impostare una politica condivisa di lunga durata. Questo è il momento. Cosa fare ? Ciascuno può contribuire con idee e suggerimenti. A titolo puramente indicativo eccone alcuni.

 1) Ristabilire un rapporto forte con il fiume, La vera causa per cui siamo qui riaffermando il suo ruolo fondante per tutti noi, valorizzando  la sua storia, la sua bellezza, il suo folklore. Modi ce ne sono tanti: celebrare una vera festa del Dio Tevere (gli antichi romani l’8 dicembre celebravano i Tibernalia, dedicati al Padre Tevere) un’occasione per una “cerimonia” popolare della quale i fiumaroli, con i loro circoli storici sarebbero i protagonisti.  2) Ricreare occasioni di attività sul fiume, gite in barca, scampagnate, pranzi sul pontone….. 3) Ricucire la frattura che si è creata tra i ragazzi che praticano agonismo ed il resto del circolo. E’ quanto accade in quasi tutti i grandi circoli, dove i soci spesso neanche  conoscono i nomi dei ragazzi che vogano per il circolo, e anche da noi, nonostante la collaborazione appassionata dei nostri allenatori. Fenomeno in parte dovuto a un  forte salto generazionale : una volta il canottaggio   si cominciava più tardi, oggi i ragazzini iniziano  a dieci anni, e difficilmente si possono sentire integrati. Finisce che  i soci che non vogano non hanno neanche occasioni di incontro. Si dovrebbero organizzare cene sociali con la partecipazione dei ragazzi insieme ai soci e alle famiglie , pubblicare le loro foto con i nomi nei locali del circolo, organizzare gare sociali con equipaggi misti  formati da atleti e soci master …. ecc. 4)  Ricostruire un rapporto proficuo  con i soci master,  favorendone l’attività agonistica . Purtroppo il nostro circolo ha perso molti master che vogano per altri circoli, mentre noi, circolo fondato da atleti e composto in gran parte da soci atleti ed  ex-atleti,  dovremmo rappresentare il circolo master per eccellenza…. 5) Inserire nella domanda di adesione l’obbligo di praticare il canottaggio o la canoa, come condizione sine qua non per essere socio (per quelli privi di esperienza specifica, l’obbligo di partecipare ai corsi di istruzione che periodicamente si organizzano  a tale fine, con esame finale al termine del periodo di prova) Sarebbe estremo e provocatorio, ma anche divertente, e darebbe la sensazione di non  essere un aspirante cliente di una società di servizi, ma un aspirante socio che spera di entrare a far parte di in  un gruppo con una sua  storia, la sua disciplina, le sue tradizioni, tutte condizioni  alle quali devi adeguarti per  essere all’altezza. Insomma, che non è roba per tutti. ….

Tutti questi  soltanto suggerimenti alla rinfusa, spunti per una riflessione più completa ed organica la cui elaborazione deve essere compito fondamentale del nuovo  consiglio direttivo. Facciamo in modo che la fine della pandemia, la conclusione dei lavori di ristrutturazione, il rinnovo delle cariche sociali siano la combinazione favorevole per una ripartenza, una ulteriore rifondazione. Non c’è tempo da perdere, non farlo significherebbe rassegnarsi alla insignificanza.  C’è una grande  occasione a portata di mano, il  festeggiamento delle nostre nozze di diamante con il fiume. Settantacinque anni di vita per un circolo sportivo sono un traguardo di grande prestigio al quale tutti, chi in un modo, chi in un altro, abbiamo contribuito. Il covid ce lo ha fatto dimenticare e ci ha impedito di farlo nella ricorrenza  esatta, che cadeva nel 2020. Prepariamo allora  una grande celebrazione per l’inizio dell’estate, una festa di fiume, di barche e di allegria, come facemmo in occasione del cinquantenario. Allora riuscimmo a mettere in barca quasi cento soci, quest’anno cerchiamo di essere di più. Sarebbe già un grande inizio per la nostra rinascita.

Sulkava